giovedì 27 ottobre 2011

La leggenda del terzino gentiluomo


Parto dal presupposto che giocare a calcio non è il mio forte. Difensore centrale da partitella con gli amici, ho sempre cercato il mio mito calcistico partendo da due requisiti fondamentale : che fosse terzino e rigorosamente sinistro.
Negli ultimi 20 anni ho visto alternarsi su quella fascia campioni del calibro di Maldini, il prototipo del vero calciatore professionista; Roberto Carlos, l' uomo che ha messo in discussione più di una legge della fisica; e poi Fabio Grosso, cui dobbiamo la quarta stella sulle maglie della nazionale, e calciatori più o meno celebri, che per me restano dei miti anche solo per una questione affettiva.
Ma da giovane vecchio, quale mi vanto di essere, devo ricercare tra le foto in bianco e nero quello che è il mio terzino preferito. E la memoria corre agli anni '60, periodo in cui a galoppare sulla fascia sinistra c'era Giacinto Facchetti. Nato a Treviglio, piccolo comune del bergamasco, ha indossato la maglia dell' Inter per 475 volte, vincendo tutto quello che era possibile immaginare e desiderare come calciatore.
Non sono interista, non ho mai visto Facchetti in campo se non in qualche nostalgica puntata di "Sfide" o programmi simili. Ma di Facchetti ho il ricordo di tante interviste in cui si è sempre distinto come un gentleman, prima che come terzino della storica Inter che vinceva ovunque e contro chiunque.
Oggi ho sfogliato le pagine del libro che suo figlio Gianfelice gli ha dedicato. Ho guardato le foto del Facchetti calciatore col sorriso di chi guarda le foto di un mito del calcio. Ho guardato le foto private, ma senza violare la privacy, dello stesso Facchetti e mi sono commosso. Ho visto un padre amorevole, come il mio. Un uomo semplice che ha amato, fino alla fine dei suoi giorni, moglie, figli e nipoti. Ed è proprio guardando la foto, di recente realizzazione, di un piccolo Facchetti a San Siro che ho pensato a quanto possa essere bello il gioco del calcio. Un gioco che è rimasto tale per Giacinto Facchetti. Lontano dagli ingaggi, dai diritti tv, dalle polemiche arbitrali che hanno ridotto il tutto ad un mero business.
Stefano Benni racconta che la rivoluzione dei terzini è avvenuta anni fa, in un campetto di periferia, grazie al terzino Poldo. Uno che si lavava la maglia da solo il lunedì mattina. Uno che disse "In culo mister" nell' attimo stesso in cui varcò la soglia della metà campo per rincorrere la gloria.
Poldo è uno straordinario piccolo eroe di fantasia. Giacinto Facchetti, per fortuna, è esistito sul serio.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il coraggio e la follia del trapezista!!!


"Cosa pensa il trapezista mentre vola... Non ci pensa mica a come va a finire". Il post di questa sera comincia con una citazione di Lorenzo Jovanotti. Uno di quegli artisti che sembra conoscere ogni singolo attimo della mia esistenza. Quasi prendesse ispirazione dalla mia vita per scrivere le sue canzoni. Coincidenze. Eppure mi piace pensare che gli artisti siano collegati tra loro, attraverso fili sottilissimi, che legano pensieri, parole, emozioni,vite.
In questo momento mi sento proprio come un trapezista. Spaventato, se con lo sguardo osservo ciò che supera i miei alluci. Combattuto dall' amletico dubbio del "riuscirò ad arrivare dall' altra parte?". Ma, nel contempo, folle abbastanza per cominciare ad attraversare quel lungo cavo d' acciaio, un passo alla volta.
Lasciandomi tutto alle spalle. Una volta per tutte. Basta restare attaccato ai ricordi. Troppe volte ho programmato il futuro, partendo da ciò che era stato. Un passato che ho sempre archiviato alla voce "lezioni di vita". Mi sono un pò stancato di ricevere lezioni di vita. Stanco di dover riflettere 1, 10, 100 volte prima di muovere un muscolo, prendere una decisione, osare.
Ecco... Osare! Un verbo che non sono mai riuscito a coniugare, se non preceduto da un "dovrei" o "potrei". Adesso mi va di parlare dal presente. Oso, rischio e ci trovo tutti i sinonimi possibili, pur di esprimere finalmente il coraggio di non restare ancorato a ciò che è stato ed essere animato dal solo desiderio di scoprire quello che sarà.
Chiudo gli occhi un attimo. Un profondo respiro, fletto i muscoli e sono nel vuoto. Ops... un' altra citazione. Meno famosa (è solo Ratman!!!) ma che rende bene l' idea di ciò che mi riserva il futuro.

giovedì 13 ottobre 2011

Il mito di Kasparov... e quello di Zeman!!!


Era il 1999 quando Garri Kasparov riuscì a rendere immortale una partita di scacchi. Dato ormai per spacciato, lui riuscì a vincere ed a rendere epica una sua partita.
Di scacchi so poco o nulla. Differenza tra bianchi e neri, con conseguente scelta del colore che (pare!!!) identifichi il carattere, l’esistenza del Re, dell’Alfiere (figura a me tanto cara!!!) e dello strano movimento ad elle (si si proprio così… a L) del cavallo.
Garri Kasparov riusciva a tenere in pugno la partita con strategie che cambiavano in corso d’opera. Era in grado di sferrare un attacco nell’istante esatto in cui l’avversario dava un barlume di cedimento. Aveva un solo obiettivo, la vittoria.
Con mister Kasparov ho davvero poco in comune. Non sono tipo da strategie, tanto nel gioco quanto nella vita. Ogni singolo movimento, gesto, pensiero, parola o quel che sia, non ha un fine ultimo, uno scopo, un traguardo. Qualcuno parla di casualità, qualcun altro, come il sottoscritto, preferisce parlare di “attimo eterno”. Eh già… godersi ogni istante, viverlo in pieno, cercando di cogliere quei particolari invisibili all’intelletto umano che riescono a dar valore, nella propria semplicità, alla vita.
Mi sovviene un personaggio che, nella vita quanto nel gioco, sembra adottare questa filosofia. Zdenek Zeman, boemo di nascita, italomeridionale d’adozione. Uno che crede fermamente che la miglior difesa è l’attacco, uno che sarebbe disposto a rinunciare alla panchina più prestigiosa, pur di non mollare il suo credo tattico. Un 4-3-3 che fa divertire il pubblico, uno di quelli che ti fa perdere una partita 5-3,nella quale non contano le reti al passivo, ma solo quanti palloni riesci ad insaccare nella porta avversaria. Onore a te, taciturno tecnico, alla cui coscienza Venditti ha dedicato una canzone. Se riesco ad assaporare ogni istante della mia vita, riflettendo poco o nulla su quello che verrà, parlando sempre tanto al presente e poco al futuro. Se riesco ad essere lungimirante, non guardando oltre i 90 minuti, lo devo a te. Non me ne voglia Kasparov con le sue tecniche imbattili, le vittorie memorabili, le partite leggendarie. Preferisco una gara all’attacco. Se perdo poco importa. Non conta il risultato, ma quanto sudore lasci sulla tua maglietta.

martedì 4 ottobre 2011

La sottile linea bianca


Un pò per abitudine, un pò per divertimento, comincio i miei post con un colpo ad effetto. Qualcosa che incuriosisca il lettore al punto di arrivare al termine dei miei post, cercando di comprendere cosa si nasconde tra queste bianche pagine virtuali.
La linea bianca che da il titolo a questo nuovo intervento (e che in qualche modo vuol essere una personalissima citazione cinematografica) è quella di un campo da gioco. Eh si... quella che divide i titolari dalle riserve.
Complice una telefonata ricevuta pochi minuti prima di andare a cenare, mi sono immaginato come uno di quei calciatori che, dopo tanta gavetta nei campetti di periferia, e dopo minuti interminabili di riscaldamento, è lì, nel punto esatto in cui il campo di calcio è diviso a metà. Pronto, oltre quei pochi centimetri di gesso, ad entrare il campo e rendere reale il proprio sogno.
Ecco... difficilmente il sottoscritto debutterà in serie A, otterrà una citazione su qualche noto quotidiano sportivo, o vedrà la propria faccia sorridente su un album di figurine. Ma il sottoscritto, a breve, comincerà a "giocare sul serio". Anni trascorsi a sudare su un libro di dizione, del quale ho imparato anche la nota più illeggibile. Ore, interminabili, ad esercitarmi. Giorni trascorsi a rincorrere un sogno, passando per quell'anticamera chiamata (spesso con un'accezione negativa che proprio non comprendo!!!) gavetta.
Ed il sottoscritto si sente onorato di aver fatto, in 13 anni, altrettanti giorni di gavetta. Ripensando a quel 1998 in cui decisi, tra le risa e lo scetticismo altrui, di fare l' artista di mestiere, mi vedo cambiato completamente. Rispetto al passato molti chili in meno, una look finalmente decente e qualche capello bianco in più. Per fortuna il tempo non ha segnato il mio entusiasmo. Quello con cui affronto ogni giorno una professione da cui non smetti mai di imparare. Il confronto, la crescita, la prospettiva. Parole che spaventano tutti quelli che, alla fine de mese, pensano agli zeri sulla busta paga.
Non essendo un top player, e vivendo nell'amletico dubbio del "lo sarò mai?", penso solo a dare il massimo, per l'ennesima volta. E' la sola cosa che so fare. Non sono un fuoriclasse, ma uno bravo a sudare la maglia che indossa.